Özpetek, Istanbul Trilogy: a tavola per ritrovarsi

Non c’è nulla che non si possa affrontare intorno a una tavola imbandita. Lo sa bene Ferzan Özpetek che, spessissimo, nei suoi film ha usato la tavola come set dell’anima, quasi come luogo mitologico dove tutto è possibile, anche scoprire le grandi verità.

ISTANBUL TRILOGY

E proprio dalla tavola riparte il regista turco naturalizzato italiano con Istanbul Trilogy, da qualche giorno in programmazione su Netflix, commovente omaggio alla sua terra, dove “ritorna” dopo 5 anni da Rosso Istanbul, con un cast interamente turco e recitazione in lingua.  E, anzi, si potrebbe dire che la trilogia rappresenti quasi un’evoluzione di Rosso Istanbul, con Özpetek che cita sé stesso: “Le separazioni sono per chi ama con gli occhi, chi ama col cuore non si separa mai”.  Torna dunque il tema della separazione e della malinconia, la grande signora dei suoi lavori, con uno spiraglio di speranza che sembra voler aggiungere parole nuove all’incipit del romanzo della rinascita di Orhan in Rosso Istanbul, “chi guarda troppo al passato non vede il presente”.

LA TAVOLA

 

La tavola, dunque. Intesa “alla Özpetek”, come luogo non luogo, luogo fisico dove ci si siede per mangiare ma anche come luogo dell’anima, occasione di socialità ma dimensione intima al tempo stesso, di ricerca del proprio io e di chiarezza dei propri drammi, attraverso la condivisione del cibo che diviene metafora della condivisione delle proprie tragedie. I Meze – nome con cui la cucina turca indica gli antipasti e che dà il nome a uno dei tre corti della trilogia –  d’altronde, si servono in piccoli piatti da portata al centro del tavolo, ci si serve e poi si passano agli altri commensali, quasi un rituale nel quale si prende e si dà,  con il  cibo anche una parte di sé.
Perché, come scriveva Plutarco, “noi non ci invitiamo l’un l’altro per mangiare e bere semplicemente, ma per mangiare e bere insieme” e dunque senza dubbio la “circostanza supera la sostanza”, per dirla con Barthes, per affermare ancora una volta che il cibo non è solo alimento, nutrizione, sostentamento, ma anche un fatto sociale, è comunicazione, esperienza, identità.
Ecco, dunque, che il mangiare insieme viene elevato, ancora una volta dal cinema di Özpetek, a metafora della vita. Significativo, infatti, che la macchina non sia statica nel riprendere da lontano ciò che avviene a tavola, ma si avvicina al punto da divenire quasi uno dei commensali, ne segue i gesti, cambia direzione, si gira, si sofferma sui dettagli, sulle mani che friggono, preparano, sporzionano, portano alla bocca il cibo e l’immancabile rakı. E guardando si ha voglia di assaggiarli tutti i piatti menzionati, cucinati e gustati e nel contempo di lasciarsi travolgere da questa malinconia ozpetekiana.

MEZE: LA TAVOLA, LA MALINCONIA, LA CURA

Un doppio filo rosso, dunque, lega gli episodi della trilogia – Meze, Musica e Muhabbet  -il cibo e la malinconia: due opposti che si attraggono. Se infatti il cibo è stare insieme, è condivisione, è comunità, la malinconia è sempre e solo solitudine.
È sola la protagonista di Meze a inizio corto, che si apre con un primo piano che subito si allarga su questa donna che in abito da sposa cammina lungo le vie trafficate e affollate di Istanbul, attirando la curiosità dei passanti e dello spettatore: l’espressione del suo viso e la sua andatura sono in evidente contrasto con quell’abito da sposa, che dovrebbe evocare stati d’animo diversi. La storia ci spiega subito qual è la tragedia personale di questa donna vestita di bianco, interpretata da Ahsen Eroğlu (protagonista di Merve Kült sempre su Netflix), ma anche quale “cura” la tribù degli affetti che le si stringe attorno metterà in pratica.  Al posto del pranzo nuziale, sarà un pranzo di famiglia a festeggiare il matrimonio, quello “della salvezza e della libertà”, perché come dice la zia Mualla, interpretata dall’immancabile e carismatica Serra Yılmaz: “A volte non possiamo capire subito se quello che ci succede sia un bene o un male, ci vuole un po’ di tempo e di distanza per poter valutare”.  Uno sprone a nutrire sempre e comunque la speranza, a continuare a vivere perché in fondo “ci troviamo sull’orlo delle cose possibili”, come recitano i versi della canzone Aldırma Deli Gönlüm cantata da Sertab Erener nella chiusura che apre, appunto, alla speranza.
Un corto che è anche un inno all’universo femminile –  girato esclusivamente con protagoniste femminili che annullano anche i pochi minuti di presenza dello sposo – alla capacità di essere madri anche quando non lo si è, a quel senso materno che è comprensione, consolazione, solidarietà, empatia, tenerezza, sostegno, presenza.
Un sentimento che Özpetek sublima nell’atto del cucinare che assume il significato del prendersi cura. Squisita la zia Mualla che subito si mette ai fornelli, la tavola si riempie così di meze, appunto, gli antipasti che di fatto potrebbero far durare l’intero pasto anche ore, poiché sono tanti e si consumano con calma, chiacchierando. Spesso i meze sono il pretesto per sedersi a tavola e parlare con un amico, bevendo naturalmente il rakı, distillato aromatizzato con anice considerato bevanda nazionale in Turchia.

E se è vero che la cucina è l’espressione della cultura di un popolo e della sua storia, i meze (parola derivata dal persiano che significa gusto) raccontano molto della storia turca e della sua diversità geografica e culturale. Difficile catalogare, infatti, le varietà di meze esistenti –  unica suddivisione possibile è quella in caldi e freddi – poiché  variano nelle versioni e negli ingredienti utilizzati in base alle diverse regioni dell’immensa Turchia.

Così sulla tavola di Meze prendono posto il formaggio di Ezine (formaggio a indicazione geografica protetta, prodotto nella parte occidentale dei Monti Kaz che prende il nome da Ezine distretto della città di Çanakkale); le olive schiacciate della varietà Halhalı (prodotte nelle località di Kahramanmaraş, Mardin e Hatay una delle varietà di olive più famose: piccole ma carnose e ricche di olio e dal gusto aromatico); le acciughe “prima cotte in padella poi in forno”; i sarma rigorosamente fatti in casa (involtini di foglie di vite con ripieno che può variare); börek (triangolini di pasta fillo o yufka ripieni) fritti al momento; l’immancabile insalata, la carne secca….
Tutto viene preparato e poi consumato tra pettegolezzi, ironia e pillole di saggezza, come solo le donne possono fare, in una carrellata di gusto, gesti, immagini che sembra voler intrecciare passato, presente e futuro. Il passato nelle radici identitarie del cibo: non è casuale il riferimento alle origini geografiche di alcuni piatti, così come non è casuale la raccomandazione che i sarma siano fatti in casa. I sarma rappresentano uno dei piatti più identitari della cucina turca, prepararli non è facile, occorrono abilità ed esperienza e chi li sa fare gode di grande considerazione. Contesi nella loro origine da diversi popoli del Mediterraneo, con i greci che ne rivendicano la paternità, i paesi arabi che provano a cancellare l’aggettivo turco con cui vengono chiamati e l’Azerbaigian che ha ottenuto l’inserimento nel patrimonio immateriale Unesco della tradizione di fare e condividere i dolma (altro nome con cui vengono chiamati gli involtini di verdure e foglie) perché “prepararli e condividere la tradizione è indicatore di identità culturale”.

Passato come radici, presente vissuto nelle piccole e grandi tragedie, futuro nella speranza che va colta e alimentata. Il regista vaga tra i due estremi, tra ieri e domani, soffermandosi sull’oggi, sul “qui adesso”: e così, nell’unico momento di silenzio di una giornata intensa e chiassosa, Suraye la compagna della zia dirà: “si dice che quando cala il silenzio nasce una bambina, festeggiamo!”. Un altro buon motivo per continuare a brindare.

MUSICA, IL FILO CHE LEGA IL DESTINO

Passato, presente e futuro, si intrecciano in tutti e tre i corti della trilogia e in Musica i fili si annodano intorno alla trama del destino, il kader tanto caro al cinema turco.
Anche qui la tavola e gli antipasti diventano il pretesto perché le pedine di un destino, una volta tanto benevolo, tornino al loro posto. Anche qui un messaggio di speranza traspare nella filigrana di un racconto giocato sulle capriole del caso, che in realtà si rivela non essere tale, perché “le coincidenze non esistono, bisogna saper cogliere i segnali che la vita ci manda”.
Tre bambini si rincontrano in età adulta, casualmente, come casuale è stato il loro primo incontro. I tre protagonisti sono interpretati da Yiğit Kirazci (per gli amanti delle serie turche: L’apocalisse dell’amore con Pınar Deniz; 50 M2); Burak Yamantürk (Kuş Uçuşu o Ambizione su Netflixe Sitare Akbaş (conosciuta nella piccola ma significativa parte di Özge in una delle serie più belle di tutti i tempi, Fatmagül’ün Suçu Ne? al fianco di Engin Akyürek e Beren Saat)

Tre bambini e una sfera di vetro con un pesciolino rosso che potrebbe nuovamente cambiare il corso alle cose: “Ai nuovi inizi ancora più belli” è il brindisi che fanno gli amici con il rakı. Un adulto sull’orlo del fallimento forse troverà la sua salvezza nella buona azione compiuta da bambino regalando quel pesciolino rosso: un gesto sincero, ingenuo, sentito e generoso, come solo i bambini sanno compiere, in grado di cambiare gli eventi.
Proscenio ancora una volta la tavola, protagonisti ancora una volta i meze, ancora una volta il rakı.  Ancora una volta un tripudio di prelibatezze turche: pincur, lakerda, dible di fagioli, salsa Haydari, manca, sedano all’arancia, crema cretese, tarator, insalata di polpo, Kuru Cacık, börek con i porri, fegato all’albanese.  Un’abbuffata condita dalla musica che “dà forma a come ci sentiamo nel momento presente, come ricordiamo il passato, come ci godiamo la vita”.
Significativa la scelta della canzone – “Tempesta”  – che accompagna il corto (come solo i turchi sanno fare!): “Non ci consumano né il passato né il futuro, la vita ci rigenera sempre anche se il nostro cammino passa per le steppe, le strade conducono al mare”.

MUHABBET, LA DIFFICOLTA’ DI DIRE ADDIO


La vita come incedere, dunque, fra passato e futuro, torna nel terzo corto Muhabbet, per trasformarsi in una corsa, nel bisogno impellente del protagonista di correre disperatamente verso ciò da cui non può separarsi.
Muhabbet, che in turco significa conversazione, è il più struggente e intimo dei tre corti. Qui il protagonista incarna con tutto il dolore possibile l’inquietudine della malinconia espressa nella metafora del viaggio, che qui diviene una corsa solitaria verso i luoghi – e gli affetti – del proprio passato: gli amici perduti, i genitori morti, l’amore mai dimenticato per Yusuf (un nome che ci riporta ancora una volta a Rosso Istanbul) a cui Özpetek fa pronunciare una delle più belle frasi d’amore di sempre: “Tu eri la mia vita, la mia scusa, la mia tempesta. Lo sei ancora e lo sarai per sempre”.
Il corto si apre con Selim, il protagonista interpretato da Kubilay Aka (il celebre Kerem di Love 101) che inizia questa folle corsa a piedi che da Trinità dei Monti lo porterà fino a Istanbul. Una corsa partita di notte in una solitaria Roma che si conclude al tramonto sulle rive del Bosforo, altrettanto solitarie, animate dal volo dei gabbiani e dall’ansimare del protagonista. Selim giunge appena in tempo per unirsi alla tavolata degli amici di un tempo. Qui il valore simbolico della tavola, del mangiare e bere insieme, è ancor più sottolineato dall’assenza di inquadrature: non ci sono portate, non ci sono piatti, si vede solo il rakı versato nei bicchieri e mescolato con l’acqua della caraffa. Gli unici piatti citati sono ancora una volta i sarma, che il padre prepara alla madre per fare pace e le mücver  – frittelle di cui esistono svariate versioni: di zucchine, melanzane, patate, carne, fagiolini… – un piatto della sua infanzia, che la madre gli preparava in anticipo: “perché ti piace mangiarle fredde dal frigo”. Parla al presente la mamma e lo fa anche il padre: dialoghi cristallizzati in un passato che il protagonista non riesce a superare. È ancora fermo lì a quell’incidente che li ha portati via. Un intenso Kubilay Aka travolge emotivamente col suo oscillare fra riso e pianto, fra la felicità di rivivere l’intimità familiare con i suoi genitori e il dolore della perdita rivissuta ancora, tra la tenerezza di un incontro desiderato e il peso di un senso di colpa mai metabolizzato.
Dalla tavolata con gli amici, di cui ha perduto le tappe più significative delle loro vite, Selim si alza per andare incontro alla madre e al padre, da qui ancora una volta si sposterà per avvicinarsi a Yusuf.  Forse l’incontro più difficile. È difficile scegliere le parole giuste, dire definitivamente addio, trovare una ragione per una storia rimasta a metà.
Tre tappe di un viaggio attraverso le separazioni che hanno scandito la sua vita, che Selim fa in sogno, dove tutto è sempre più semplice. Poi il ritorno alla realtà. All’oggi. Di nuovo intorno ad un tavolo. Questa volta a Roma, con gli amici italiani, al tavolo di un bar per la colazione. Qui è ancora una volta lo sguardo di Kubilay Aka a provocare una tempesta emotiva, mentre passa in rassegna ognuna delle persone sedute a quel tavolo, con un misto di rassegnazione e consapevolezza, poiché tutti hanno una ferita nel cuore da cui è difficile guarire.
Ma, forse, non impossibile. La consapevolezza di questo, allora, può alleggerire il carico che si ha dentro, le ferite, gli addii mai detti, le sconfitte, i dolori.
La condivisione che genera speranza. Partendo da una tavola, meglio se imbandita.