Michele Di Mauro in “Non morirò di fame”

Michele Di Mauro in “Non morirò di fame”

Quando una stella Michelin non fa la felicità.

Il film “Non morirò di fame” è interamente girato a Torino e dintorni, con vari product placement della regione Piemonte come la Mole Cola e “M.. B..” che ora spieghiamo, dopo duna causa con MC Donalds ovviamente persa ha dovuto cambiare il nome originale “Mac Bun”, che tradotto dal piemontese vuol dire veramente buono, ma troppo simile al marchio americano.

Locandina

La storia che viene raccontata è simile tante altre anche più tragiche che abbiamo avuto modo di leggere nelle news, essere uno Chef stellato Michelin non è solo un onore ma un onere che genera stress a livelli altissimi, e quando le cose non vanno ti può portare ad una profonda depressione.

Qui si tocca anche un argomento molto sensibile in questi ultimi anni ovvero lo spreco alimentare delle grandi distribuzioni e della ristorazione, tema su cui ancora non si è arrivati ad una buona amministrazione. Qualcosa si è fatto ma è ancora troppo poco.

Secondo te da dove parte l’infelicità di Pier, il tuo personaggio Chef stellato Michelin?

Parte tutto dall’industria dello spettacolo culinario, in cui uno ad un certo punto si perde ed inizia ad avere una filosofia, che è molto distante dalla vita ma è molto vicina a tutto quello che è effimero e stucchevole allo stesso modo, quello per cui vale solo l’arrivare solo dove nessun altro arriva: 1 stella, 2 stelle, tre stelle.

E sappiamo tutti che non è poi neanche un valore oggettivo, ma politico più che altro possiamo dire.

Ed è semplicemente un uomo che si è perso all’interno di questo meccanismo, e di lui non sappiamo nulla di quello che succede prima del film a parte il suo successo lavorativo.

Quanto deve essere deluso uno per finire a fare il clochard ?

È un uomo in preda ad un percorso carico di follia; infatti, nei flashback vediamo che faceva uso ed abuso di pillole ed alcool, però non saprei neanche se si tratta realmente di delusione o una vera e propria voglia di smettere di essere ciò che si è, arrivando al punto di non fare più niente. Tutto questo è figlio di una vera malattia che è la depressione.

Il film porta alla luce in una maniera incredibile lo spreco alimentare, tu con degli scarti ci fai vedere che si possono preparare prelibatezze.

Questa è la fortuna di questo personaggio, per arrivare a fare questo genere di cose bisogna si avere i tormenti ma soprattutto le capacità e lui le ha.

Quindi avendo la tecnica nel recupero di una filosofia diversa lui è avvantaggiato ed è sorprendente il meccanismo di pensiero che scatta.

In America esistono già realtà che fanno questo genere di cucina, secondo te verrà mai accettata in Italia?

È complicato ma con la giusta promozione del pensiero forse poi non è così inarrivabile; quindi, ci sono un sacco di movimenti intorno a questo problema soprattutto dal punto di vista politico.

È una questione che riguarda le cariche dello stato, la scuola, insomma coinvolge tutti.

La Storia che raccontate non si scosta da tante altre di chef stellati che a causa della pressione che li porta avere queste stelle sulla gobba si sono anche suicidati.

Si, però il film vuole proprio mettere il focus sul riscatto di questo genere di persone, quello di cui realmente si parla è il recupero più che lo spreco.

La felicità però il tuo personaggio la trova alla fine, questo è quello che conta.

Magari non è esattamente la felicità ma è il modo di riuscire a guardare le cose ed a pensarle in un modo totalmente diverso, mettendo insieme la realtà ed il pensiero positivo, raggiungendo la serenità.