L’eleganza e il portamento contraddistinguono Carlo Salino in sala, la competenza e la conoscenza della materia prima quando si presenta al tavolo, per soddisfare le richieste dei clienti.
L’esperienza del sommelier Carlo Salino all’interno del Ristorante Opera Ingegno e Creatività è iniziata nel 2019 e, da quel momento, lui non ha mai smesso di cercare di migliorarsi, documentandosi, ispirandosi a tre grandi maestri, dai quali vorrebbe rubare a ciascuno qualcosa, e viaggiando in tutto il mondo, alla ricerca dei migliori piccoli produttori. Non appena sarà possibile riprenderà il suo viaggio ma, nel frattempo, ha già programmato le tappe. Di anni ne ha 25 ma, sulla carta (vini) ne dimostra molti di più.
Chi è Carlo Salino?
Sono nato a Torino il 28 marzo 1995. Il contesto geografico nel quale sono cresciuto mi ha permesso di appassionarmi sin da subito al mondo del vino, per il quale ho seguito diversi corsi di formazione, il primo livello di sommelier AIS e adesso il WSET. Ho capito che il vino era una forma d’arte e che avrei voluto avere a che fare con lui ogni giorno.
La mia prima esperienza è stata in un’enoteca a Barolo, nel 2016, dopo la quale ho intrapreso un lungo viaggio per produttori insieme a un mio amico, fra Italia, Austria, Est-Europa e Australia, dove sono rimasto un anno e mezzo per l’esperienza in sala al Waterfront, un ristorante di pesce nel quartiere Southbank di Melbourne. Sono rientrato in Italia con la voglia di condividere la mia passione e le conoscenze apprese all’estero. Dopo una breve parentesi in una trattoria di Torino, dove ero il responsabile di sala, a settembre 2019 ho iniziato da Opera Ingegno e Creatività, per la mia prima volta da sommelier.
Si ricorda quando e come è stato il suo primo approccio al vino?
Sì, ero nelle Langhe, alla Vinoteca Centro Storico a Serralunga d’Alba (CN). Ero un ragazzino di 16-17 anni e il racconto del vino che fece il titolare mi affascinò e mi incuriosì al tema.
Com’è cambiato il rapporto che lo lega alla bevanda nel corso degli anni?
Mentre prima prediligevo i vini del territorio, in primis i rossi strutturati piemontesi, le tante esperienze all’estero mi hanno fatto apprezzare i vini dalla maggior bevibilità, risultato di un approccio naturale in vigna.
Domani vorrebbe diventare come?
Vorrei essere un sommelier con la conoscenza di Gianluigi Desana del Ristorante Scannabue, la gestione della sala e della cantina dal Restaurant Manager e Head Sommelier di Piazza Duomo, Vincenzo Donatiello e il racconto dei vini – condito da cenni storici, stili di vinificazione e precisa analisi sensoriale – del Miglior Sommelier d’Italia 2010 e ora consulente AIS, Nicola Bonera.
Quanto le manca viaggiare? Quale sarà la prima tappa che visiterà quando sarà possibile?
Tantissimo, visto il mio background da viaggiatore. Ho sicuramente in programma di fare un tour vinicolo francese, focalizzato sulla Borgogna, e sudamericano, tra cantine e produttori gastronomici.
Quali sono i viaggi vinicoli che ricorda con maggior piacere?
Quello nella regione austriaca di Vachau, nel 2017, dove ho scoperto che le uve si esprimono con un risultato diverso in funzione del versante e del pedoclima, e quelli alle Cinque terre, Sudtirolo e Alto Piemonte, per la viticoltura eroica e la perseveranza che caratterizza i piccoli produttori.
L’esperienza più longeva che io abbia mai fatto, quella australiana, mi ha invece fatto cancellare alcuni pregiudizi che avevo sulle loro produzioni. Nel continente vi è una bellissima cerchia di piccoli produttori, che fanno vini naturali in un terreno meno battuto rispetto al nostro.
Da dove parte per costruire una carta vini? Cosa non può mai mancare?
Per costruire una perfetta carta vini, credo sia importante toccare tutte le aree geografiche interessanti e avere un occhio di riguardo alla cucina del ristorante. Una volta fatta, la carta va aggiornata con le nuove scoperte e in funzione del riscontro della clientela. Non può mai mancare il Pinot Nero, in ogni sua veste.
È il mio vitigno preferito perché riesce a essere vinificato in tutto il mondo ed è molto versatile, riuscendo a dare ottimi risultati sia quando viene vinificato in rosso, sia quando viene spumantizzato. Gli esempi migliori sono indubbiamente quelli francesi: i rossi di Borgogna e gli Champagne.
Conosce quattro lingue: italiano, inglese, francese e spagnolo. Quanto è difficile spiegare un’etichetta italiana di nicchia a un cliente straniero?
Per il cliente straniero può essere sicuramente difficile comprendere certe sfaccettature dei nostri vini, geografiche più che altro, vista l’alta biodiversità che ci caratterizza. A livello di approccio, invece, è più facile raccontare un vino alla clientela straniera piuttosto che italiana, che presenta molti pregiudizi a monte. Se l’italiano ha bevuto un Arneis che non gli piace, allora difficilmente lo riprenderà.
Il suo artista preferito? Cosa ci berrebbe in accompagnamento?
I miei artisti preferiti sono i Rolling Stones perché, volendo fare una metafora, come i produttori trasformano l’uva in vino loro trasformano le note in poesia. È una forma d’arte molto diversa ma, per certi versi, anche molto simile. L’ideale per accompagnare le loro canzoni sono degli ottimi champagne, come l’Extra Brut Blanc de Noirs “Les Maillons” – Ulysse Collin.
Quali sono i suoi produttori preferiti?
Ne ho tre, ciascuno per un motivo differente. Agrapart, perché riesce a creare degli champagne con una buona struttura, altrettanta acidità e un’incredibile freschezza, Bartolo Mascarello, per l’attaccamento all’etichetta e perché con tante loro vecchie annate di Barolo mi sono stupito come non mai, e Clos Rougeard, per la miglior espressione di Cabernet Franc in Loira. Le loro etichette hanno un naso di friggitello, una nota gustativa di frutto rosso e una beva piacevole.
L’abbinamento più riuscito che ha fatto finora?
L’Aidani 2017 di Hatzidakis con il Risotto affumicato, alici, finocchietto, bottarga dello chef Stefano Sforza. Aidani è il nome di un vitigno bianco autoctono dell’isola di Santorini, dal profilo salmastro, mediterraneo e avvolgente, perfetto in abbinamento alla sapidità della bottarga e delle alici.
In futuro costruirà degli abbinamenti non convenzionali o è una cosa che sta già facendo?
È una proposta che abbiamo già e che stiamo implementando sempre più al ristorante. In accompagnamento agli snack di benvenuto stiamo servendo alcune kombucha, come quello di pesche e basilico, mentre insieme ad alcuni piatti dei menu degustazione proponiamo soft drink preparati da noi, come Sake, yuzu, tonica. In chiusura stiamo sviluppando un accompagnamento ai dolci con cioccolato, pera e albicocca con distillati e liquori.
Da Opera vi è un menu vegetariano mono-ingrediente, che è arrivato alla terza versione. Dopo pomodoro e cavolfiore, ora c’è il carciofo. Come è stato costruire un abbinamento vini ad hoc?
Lavorare su un menu del genere è molto stimolante perché ti fa concentrare e andare a fondo sulla materia prima, facendoti scoprire le precise caratteristiche degli ingredienti, come l’acidità dei pomodori, la tannicità del carciofo o l’evoluzione del cavolfiore in risposta a una diversa tipologia di cottura. Nonostante si parta sempre dallo stesso ingrediente, la trasformazione conferita dalle tecniche di cucina mi ha spinto ad abbinare vini molto differenti fra loro.
Ha pensato, invece, di costruire un intero abbinamento vini con un solo vitigno di partenza?
Sì, ed è una cosa che vorrei introdurre appena possibile. Avevo pensato di crearlo con il Riesling, ma non in abbinamento al menu monoingrediente, piuttosto al degustazione Opera. Si potrebbe, per esempio, spaziare da uno Spatlese di Mosella a un’etichetta beverina di Adelaide Hills, passando per alcune interessanti realtà piemontesi. Una delle più belle carte vini che io abbia mai visto è di un wine bar a Sidney, nel quale vi era proprio una sezione dedicata al solo Riesling, con infinite sfaccettature pedoclimatiche del vitigno.