Con il suo clima estremo e l’abbondante fauna selvatica, l’Alaska ha un cuore selvaggio, è bellissima e anche un po’ eccentrica. Fiona Sims è arrivata fino a Homer Spit – la “fine della strada” – dove ha cominciato un avvincente viaggio gastronomico.
Ci vogliono 15 minuti per percorrere tutta la Homer Spit, la sottile penisola che si protende nella baia di Kachemak. Le massicce montagne circostanti la fanno sembrare ancora più vulnerabile; case e botteghe scolorite dalle intemperie, molte costruite a palafitta a causa delle enormi fluttuazioni delle maree, si aggrappano all’esile lingua di terra alla mercé dei fenomeni naturali. I più estremi sono i terremoti. L’ultimo importante, nel 1964, ha scosso la regione così violentemente che metà della penisola è scomparsa sotto il mare. Apparecchi per l’allerta tsunami, posizionati in maniera strategica, ricordano costantemente il pericolo. Se vi piace vivere al limite, Homer Spit è il posto dove venire. Homer è a cinque ore d’auto da Anchorage; appena usciti dalla città si raggiungono le montagne frastagliate della Penisola di Kenai, dove le foreste lasciano il posto alla tundra alpina e i picchi si riflettono in laghi pieni di ninfee. Lungo la strada fiancheggiata di lupini purpurei incrocerete tir carichi di tronchi – e, se siete fortunati, magari un orso o un alce. Quando imboccherete l’ultima curva della Sterling Highway prima di entrare a Homer, la vista della Kachemak Bay vi farà rimanere a bocca aperta. I ghiacciai luccicano al sole, i vulcani brillano in lontananza. Homer è una cittadina tranquilla, con prati pieni di achillea bianca e verghe d’oro che arrivano fino alle spiagge deserte, con graziose casette di legno che interrompono qua e là il paesaggio. La strada è arrivata al “villaggio cosmico in riva al mare” (il nome non ufficiale di Homer – insieme a “la fine della strada”, dipende con chi parlate) solo nel 1953. Da allora, artisti e pescatori, hippies e agricoltori sono venuti a vivere in questo luogo peculiare. L’estate è il momento migliore per visitarlo – ammenoché preferiate neve e ghiaccio.
Don McNamara preferisce di gran lunga il ghiaccio. Il californiano, 60 anni o giù di lì, sfoglia un album di foto che lo ritraggono mentre fa surf. Non per vanità, capite, ma per dimostrare che effettivamente lui fa surf là fuori in pieno inverno. I ghiaccioli gli pendono dalle basette mentre fila sulla cresta di un’onda e si staglia con la sua muta sgualcita sullo sfondo delle massicce montagne coperte di neve. Gli abitanti del posto lo chiamano Iceman, anche il suo comportamento non è così strano, da queste parti. Homer – come l’Alaska – è pieno di sorprese.
McNamara a Homer coltiva un orto con la moglie Donna e rifornisce i ristoranti locali e i venditori del mercato settimanale. Penserete che quassù non crescerà granché, considerando la latitudine e i lunghi inverni bui. Anche durante la breve estate, in luglio e agosto, la temperatura fa fatica a raggiungere i 18 gradi. Ma è incredibile che cosa non si riesca a ottenere con un po’ di teli di plastica. Nel loro appezzamento di terra sull’oceano i McNamara hanno tre tunnel – fondamentalmente sono serre di plastica. “Il mio più grande divertimento è allungare la stagione e, in ogni caso, preferisco guardare le patate che i fiori”, dice Don con un sorriso, indicando vari tipi di zucca e pomodori, micro ortaggi e frutti di bosco. Quando ce ne andiamo, McNamara ci regala un paio di bistecche di alce surgelate. “Ci procacciamo tutto il cibo – dice –. Le pecore bighorn bianche e le capre di montagna sono le migliori”. Non che vi capiterà di assaggiarne, sfortunatamente. Vendere carne di animali selvatici è proibito a tutti, tranne alle popolazioni indigene dell’Alaska – Inupiaq, Yupik, Aleut o Tlingit, per citarne alcune.
Gli orti con i tunnel di plastica sono un po’ ovunque, a Homer, dove la sostenibilità è una delle basi del vivere locale. C’è persino un gruppo organizzato, Sustainable Homer, guidato con passione da Kyra Wagner. Come McNamara e sua moglie Donna (lui californiano, lei di Boston), che arrivarono per una vacanza in kayak e non se ne sono più andati, Kyra Wagner, nata in Colorado, ha incontrato qui il suo compagno, originario del Minnesota, durante una visita ad amici e ha deciso di fermarsi. È una storia che si ripete spesso parlando con gli abitanti di Homer.
“L’Alaska ti seduce”, dice Kyra, guardando le montagne incappucciate di neve al di là della baia. Ci mostra la dispensa nella cantina sotto la sua casa di legno; sugli scaffali sono allineati barattoli di vetro colmi di zucca, fagiolini gialli e barbabietola gialla sott’aceto, marmellate, conserve, gelatine e salse. C’è anche una macchina per inscatolare, più un freezer che durante l’estate andrà via via riempendosi di pesce e che sfamerà i Wagner per tutto il lungo inverno. Tutti quelli che vivono in Alaska hanno un freezer pieno di pesce e selvaggina.
Homer è conosciuta anche come la capitale mondiale della pesca all’halibut o ippoglosso – l’hanno scritto persino sul cartello scrostato all’ingresso della città. I pescatori si ritrovano con esche e attrezzatura sulla punta dell’Homer Spit nella speranza di catturare il pregiato pesce bianco, anche se gli esemplari più grossi si pescano in acque profonde. La dimensione media degli halibut pescati qui è di 9 kg, ma molti raggiungono i 180 kg e oltre.
Oltre che per i magnifici panorami, molti vengono in Alaska per la qualità del pesce. All’inizio del ‘900 c’è stato un breve boom delle aringhe, ma oggi si pescano lingcod e yelloweyed rockfish, black sea bass e pollock (merluzzo dell’Alaska), greenling e Irish lord (tutti nomi pressoché intraducibili in italiano), con l’halibut e il salmone a far la parte del leone. L’allevamento del salmone è un’eresia in Alaska – è addirittura proibito dalla costituzione dello stato. Si può incoraggiare la produzione liberando uova nei fiumi, ma questo è quanto. Il salmone selvaggio dell’Alaska è un prodotto certificato, ottenuto da pesca che rispetta i principi ecologici e la sostenibilità. In Italia si trova affumicato al supermercato, ma assaggiato fresco, appena pescato, è qualcosa di diverso.
Kirsten Dixon percorre il pontile in legno per andare incontro al suo pescatore di fiducia, che oggi è riuscito a catturare un salmone reale di 15 kg, la più grande e più rara delle cinque specie di salmone dell’Alaska. È anche la più ricercata, con le caratteristiche macchie nere sul dorso e sulla pinna caudale. “Non sono ancora arrivati, questo è il primo che prendo questo mese”, si lamenta il pescatore mentre consegna il prezioso esemplare che finirà nei nostri piatti. Kirsten è la proprietaria nonché cuoca del Tutka Bay Lodge, che si trova a circa mezz’ora di barca (o 5 minuti d’idrovalante) dall’altra parte della baia di Kachemak rispetto a Homer Spit – anche se sembra di essere a migliaia di chilometri da qualunque luogo abitato. Sopra di noi, una dozzina di aquile di mare testabianca lanciano strida acute; i loro nidi si intravvedono sui rami degli abeti rossi tutt’intorno. Ed è l’unico rumore. La pace è completa. Be’, quasi… C’è il dolce suono delle padelle che arriva dal lodge, dove i cuochi di Kirsten, compresa sua figlia Mandy, stanno preparando un banchetto. Kirsten è molto conosciuta da queste parti. Diplomata Cordon Bleu, autrice di numerosi libri di cucina e collaboratrice di molte riviste, ha lasciato Anchorage per la vita del lodge all’inzio degli anni ‘80, quando suo marito fondò una società turistica. Oggi gestiscono due lodge sperduti nella natura. L’Alaska ha una tradizione in fatto di lodge isolati. Prima dell’avvento degli aerei c’erano cabine disseminate ogni 20 miglia lungo i sentieri usati dalle slitte per consegnare la posta. Alcune erano poco più che baracche, altre più confortevoli; al confronto, Tutka Bay Lodge è decisamente lussuoso.
“Penso che la personalità dell’Alaska si esprima attraverso la sua cucina”, dice Kirsten mentre sfiletta il black cod che a pranzo ci servirà con una glassa di miso, un omaggio al celebre cuoco Nobu Matsuhisa, autore della ricetta e che per un breve periodo ha gestito un ristorante ad Anchorage. “C’è un’autosufficienza che ha origini storiche. Gli abitanti dell’Alaska sono gran lavoratori, pionieri, indipendenti – aggiunge –. Un tempo l’Alaska era russa e ne è rimasta traccia nella cucina, nell’uso che facciamo del cavolo, della barbabietola e delle altre radici. Ma qui si sono insediati anche molti immigrati scandinavi e la loro influenza si ritrova nell’uso abbondante di panna acida, nelle conserve sott’aceto, nell’amore per i frutti di bosco. Eppoi, ci affacciamo sul Pacifico e questo significa che ci sono forti legami con il Giappone e con le Filippine, e molti coreani si sono stabiliti qui. Senza dimenticare le popolazioni indigene dell’Alaska – il salmone alla griglia è il nostro piatto nazionale”.
Anche le alghe compaiono regolarmente nei menu del Tutka Bay Lodge. “Le facciamo essiccare su tralicci in giardino e poi le sbricioliamo nelle insalate”, dice Kirsten, che mette sott’aceto le alghe brune e usa le punte delle felci come guarnizione. La raccolta di erbe spontanee (foraging) è attività normale in Alaska. Qui la natura è ricca di sapori inusuali.
“Provate a mette il fucus in un essiccatore – ha lo stesso sapore una patatina al formaggio”, ride Lucas Thonig, una guida dello Stillpoint Lodge (e insegnante di yoga), mostrando una manciata dell’alga sulla spiaggia, all’inizio dell’escursione sul Saddle Trail.
Stillpoint Lodge è di proprietà di Jim Thurston, ex pilota, e della moglie Jan, un’artista, che si sono stabiliti a Halibut Cove in cerca di una vita tranquilla; qui hanno creato un rifugio incentrato sulla spiritualità e la creatività. Questa filosofia abbraccia anche il cibo, grazie all’immaginazione della moglie di Lukas, Beka, executive chef dello Stillpoint Lodge, che con le nostre bistecche di alce ha preparato una meravigliosa bourguignonne. “La carne deve essere cotta a lungo a bassa temperatura”, racconta.
Il Saddle Trail si arrampica verso il ghiacciaio Grewingk, dall’altra parte della baia di Kachemak a est di Homer. In mano stringiamo una bomboletta di repellente per orsi (il foglio di istruzioni che abbiamo trovato in camera consiglia “in caso di attacco, contrattaccate”), la testa è protetta da retine anti-zanzare; così bardati camminiamo attraverso umide e verdeggianti foreste di abeti rossi, schivando escrementi di coyote e orso, meravigliandoci delle dimensioni delle impronte degli alci – anche se non andiamo più vicini di così alle creature a quattro zampe. Raccogliamo gerani selvatici che più tardi metteremo nell’insalata, assaggiamo cranberry di bosco e aquilegia, dai fiori ricchi di nettare, e succhiamo i fiori di menziesia ferruginea, arancioni e dalla forma a tulipano, colmi di gocce sapor del miele, una delle ghiottenerie preferite dagli orsi. Lucas gonfia una canoa e attraversiamo il lago, sfiorando blocchi di ghiaccio galleggianti grandi come una casa, fino ai piedi del ghiacciaio che scende dall’Harding Icefield, una superficie ghiacciata di 1.610 kmq.
C’è l’alta marea quando schizziamo in barca attaverso l’Halibut Cove in direzione di Stillpoint, passando un gruppo di lontre marine e file e file di allevamenti di ostriche (ci sono 14 allevamenti di ostriche nella baia, l’unico tipo di allevamento marino permesso). Passiamo davanti a spaziose case per le vacanze, molte delle quali collegate da passerelle sopraelevate in legno.
Sono stati Clem e Diana Tillion a far conoscere Halibut Cove dopo che si trasferono nella zona negli anni ‘40. L’industria del legno minacciava di decimare le foreste e Clem, alll’epoca senatore dello stato, usò la sua inflluenza per trasformare l’area in un parco nazionale. E se Homer è una colonia di artisti, Halibut Cove lo è ancora di più – scultori, pittori, stampatori e fotografi la frequentano regolarmente durante l’estate, esponendo nella piccola galleria di Ismailof Island, dove abita la famiglia Tillion. Marian Beck è la figlia di Clem Tillion. Artista di talento, vive sull’isola a tempo .pieno, insieme a un’altra ventina di persone che coraggiosamente scelgono di trascorrere qui tutto l’inverno. Il Danny J è l’unica linea di comunicazione. È un traghetto in legno di 70 anni, restaurato, che trasporta i passeggeri da Homer Spit a Ismailof Island, dove Marian gestisce The Saltry, il suo magico bar ristorante. Seduta sulla passerella in legno a osservare la marea calante, una birra prodotta a Homer in una mano, una forchettata di ceviche di halibut appena pescato nell’altra, mentre aquile di mare planano sulla baia incorniciata dalle montagna: non male come “dining experience”.
Il nome Alaska deriva dalla parola aleutina Alaxsxaq, che significa “grande paese, terraferma”. Circa 35.000 anni fa le tribù migrarono dall’Asia all’America attraverso lo stretto di Bering, allora asciutto, seguite molto più tardi, nel 18mo secolo, dagli esploratori europei – prima gli inglesi, poi i francesi, prima che balenieri e commercianti di pelli russi annettessero l’Alaska all’impero degli zar. Le finanze della Russia erano in uno stato disastroso dopo le guerre napoleoniche, e gli Stati Uniti ebbero buon gioco a offrirsi di comprare tutto il territorio per la misera somma di 7,2 milioni di dollari – meno di 5 centesimi l’ettaro. Agli americani interessavano le balene, poi il salmone. Solo in seguito si accorsero dell’oro e del petrolio…Quando l’Alcan Highway fu terminata, permettendo di collegare il territorio al resto degli Stati Uniti, il 3 gennaio 1959 l’Alaska diventò il 49mo Stato dell’Unione. È abbastanza surreale vedere quel che resta della dominazione russa nelle chiese e nei villaggi – addirittura nell’abbigliamento di qualche anziano. Non è l’unica cosa che sembra essersi fermata nel tempo. Lontana, isolata e intatta, l’Alaska non è facile da raggiungere (o alla portata di tutte le tasche). Ma ci sono pochi posti sul pianeta così belli e grandiosi.
Fiona Sims e Gary Lathan hanno viaggiato in Alaska ospiti dell’Alaskan Tourist Office (www.travelalaska.com)