E invece comincio con un film. Niente dizi, per partire con la rubrica Cose Turche, ma un film.
Avete presente quando sei giù e hai il bisogno quasi fisico di guardare qualcosa che ti faccia stare anche peggio? Qualcosa che scateni la tempesta perfetta, che ti faccia riflettere ma anche fare i conti con ciò che hai lungamente represso dentro. Che ti faccia piangere fino a non respirare, provocando uno di quei temporali emotivi che dopo, speri, possa portare l’arcobaleno. Ecco questo è uno di quei film. Uno di quei film che ti entrano dentro per rimanerci a lungo.
Yolun Açık Olsun è un film del 2022, vincitore di ben quattro premi all’ultimo Festival internazionale del cinema di Izmir (miglior film digitale, miglior attore a Engin Akyürek, migliore attrice a Belfu Benian e miglior regista a Mehmet Ada Öztekin ) distribuito su Netflix in tutto il mondo con titoli diversi, in Italia con “Ripartire da un viaggio”. Accanto a Engin Akyürek (ve lo avevo detto che sarei partita da lui…) nel ruolo di coprotagonista c’è Tolga Sarıtaş, insieme riescono a trasferire sulla pellicola il sentimento di amicizia che li lega anche nella realtà. Intorno, alcuni degli attori che abbiamo conosciuto in altri film e serie tv. Impossibile non citare la toccante colonna sonora, opera di quel genio di Toygar Işıklı, a cui dobbiamo buona parte delle emozioni che proviamo nel guardare serie e film.
All’inizio della pellicola si fa fatica a comprendere con chiarezza dove vuol portarti, ma il colpo di scena finale e gli eventi dell’ultimo terzo del film danno un senso di compiutezza a tutta la narrazione, chiudendo il cerchio alla perfezione. E se riesci a trattenere le lacrime nel tentativo di non distrarti dai dettagli che intuisci potrebbero essere rilevatori – un film pieno di dettagli – arriva il momento in cui non puoi che lasciarti andare a un pianto liberatorio.
La guerra e il dolore della separazione
Il tema è di quelli che già prima di schiacciare play sai che ti faranno male, trattandosi di un film dedicato ai martiri di guerra. Un tributo al sacrificio dei tanti caduti in guerra. A mio avviso, però, ci sono due piani di lettura di questo film struggente e delicatissimo, il primo sicuramente connesso al tema, ma ce n’è un secondo, che pur rimanendo sottotraccia è in grado di rendere questo film universale e trasversale. Ed è la difficoltà di fare i conti con la morte di chi si ama, con la separazione che è sempre dolorosa, con i rimpianti che spesso covano dentro, con i troppi “se” e “ma” rimasti sospesi ad aleggiare come fantasmi, con i sensi di colpa pesanti come una zavorra…. Questa, naturalmente, è una personalissima percezione che non diminuisce il valore del film, ma anzi lo arricchisce di un significato ancora più profondo e, appunto, universale. Ognuno di noi ha la sua personale storia di ferite mai del tutto cicatrizzate, che riprendono a sanguinare quando un film come questo riesce a toccare le corde giuste. E lo fa, mescolando toni drammatici, umorismo, introspezione psicologica.
La trama
Yolun Açık Olsun è un road movie, tratto dall’omonimo romanzo di Hakan Evrensel, che ne ha anche curato la sceneggiatura insieme al regista. Ci sono pochissimi personaggi, pochi eventi ma un solo grande fatto raccontato egregiamente. Un film ricco di dettagli, simboli, metafore, particolari che danno rotondità e profondità alla narrazione. Protagonisti sono Salih Çetin (interpretato da Engin Akyürek), un capitano dell’esercito rimasto mutilato sul campo, in un terribile scontro a fuoco che gli cambia la vita e il sottotenente Kerim Kerimoğlu, suo sottoposto, interpretato da Tolga Sarıtaş. Il capitano Salih è affetto da PTSD, disturbo da stress post traumatico, causato da quell’incidente. E ne ha tutti i sintomi più evidenti, dai laceranti flashback che si accendono d’improvviso costringendolo a rivivere quei momenti terribili, alla cosiddetta “anestesia affettiva”, l’incapacità cioè di provare sentimenti (magnifiche le scene in cui lo vediamo inerme e impassibile, con lo sguardo perso nel nulla, insensibile a tutto ciò che avviene intorno a lui) alternata a scoppi di rabbia violenti.
I due intraprendono un viaggio. Intuiamo che il capitano è in fuga, capiremo che è sotto inchiesta, sapremo il motivo più in là. Un viaggio, però, che non è fuga ma ricerca. Il titolo del film è la formula di saluto che i turchi sono soliti rivolgere a chi è in procinto di partire, augurando che la strada sia priva di ostacoli o incidenti. Per traslato è l’augurio che solitamente accompagna una nuova avventura, l’inizio di qualcosa di importante. E questo viaggio lo è. Perché il capitano Salih è determinato ad arrivare in tempo per impedire che Elif, la ragazza di cui Kerim è follemente innamorato, sposi un altro.
Cose che si fanno per un amico, insomma. Già, perché, fra i due, contrariamente ad ogni regola di gerarchia militare, è nata una bella amicizia. I due non potrebbero essere più diversi: Kerim ha sempre il sorriso stampato in faccia, scherza di continuo, anche quando non dovrebbe; Salih è invece serissimo, è irreprensibile, impregnato di senso del dovere fino al midollo. Kerim ama prendere la vita un po’ come viene, non ha altri sogni se non sposare la sua fidanzata e vivere lungo le sponde del lago Köyceğiz a Dalyan, un angolo di paradiso in terra a Muğla, sulla costa dell’Egeo. Vorrebbe solo vivere il suo amore, godersi la pace di quei posti, andare a pesca, ammirare uccelli e tartarughe, organizzare tour con la sua barca sfiorando il canneto che anticipa la spiaggia di Itstuzu, circondarsi degli amici. E invece è costretto ad arruolarsi per meritarsi la stima del padre di Elif che è contrario al matrimonio.
Del capitano Salih non riusciamo a sapere molto. Se non che è un tipo solitario, ha pochissimi amici, che ora non ci sono neanche più. Gli è rimasto solo la moglie Duygu, “che non lo accompagna più nemmeno a pesca”.
Il viaggio come ricerca
Il film si snoda lungo un viaggio in auto di 700 chilometri da Ankara a Dalyan, dove si svolgerà il matrimonio di Elif. Questo intenso e delicato road movie è un viaggio attraverso i luoghi che fanno da sfondo malinconico di un percorso che in realtà è tutto interiore. Un viaggio nel tormento intimo di chi ha combattuto e ucciso, di chi ha visto perdere la vita. Il film è ambientato nei nostri giorni, come capiamo dal calendario del 2017 sulla scrivania del colonnello, ma la narrazione principale non a caso si svolge a bordo di una vecchia Mercedes degli anni ’70 con tutto il film che ha toni e colori un po’ retrò: dall’arredamento della casa di Salih, al tono seppia della pellicola, agli abiti un po’ vintage dei protagonisti. Non ha importanza a quale guerra si riferiscano i fatti, perché gli orrori che provoca trascendono spazio e tempo, sono sempre gli stessi. E così anche le ferite che rimangono. E Salih di ferite ne ha accumulate un bel po’ nella sua vita. Su quell’auto hanno già perso la vita i genitori e la sorellina. Ed è proprio su quell’auto, che ha impiegato dieci anni e una montagna di soldi a restaurare, che Salih deve compiere questo viaggio nel suo inferno personale, deve fare i conti con i suoi errori, con le perdite che hanno segnato la sua vita e cercare una possibile forma di riscatto. Se c’è. “Devi lasciar andare i morti, devi stare fra i vivi”, gli dice l’amico, che sa trasformarsi nell’alter ego della sua coscienza.
Con quell’auto Salih fugge, compiendo addirittura un reato, davanti all’incredulità di un Kerim che ci appare a tratti sfuggente, quando ruba una pernice per evitarle di finire arrostita e servita su un piatto di riso. Ma la pernice morirà, comunque, per mano di un cacciatore, nello stesso istante in cui Salih la libererà nel bosco. Una metafora, per dire forse dell’ineluttabilità del destino. A cui non ci si può sottrarre.
Perché proprio la pernice?
Nella cultura popolare anatolica abbondano gli elementi naturali e animali utilizzati a mo’ di metafora o per il loro valore simbolico, e la pernice – in turco keklik – sembra essere una delle specie più ricorrenti e amate, tanto da poter parlare di un vero e proprio legame culturale ed emotivo. Tenute spessissimo in casa (ma anche cucinate come kebab), si ritrovano nella letteratura popolare: dai racconti epici, alle ninne nane, dalle fiabe alle canzoni popolari, dai proverbi agli indovinelli. Ma anche nella musica e nelle danze popolari, una celebre canzone popolare recita così: “Ero una pernice, mi hanno sparato, mi hanno spezzato l’ala, cos’ero ancora, mi hanno separato da mia madre”. Karacaoğlan, poeta folk del XVII secolo, ricorre alle caratteristiche della pernice per parlare della bellezza; mentre una delle danze popolari più famose è il “ballo della pernice” della città di Silifke, nel quale se ne riproduce il verso con delle specie di nacchere. Nel ricamo, forma artigianale particolarmente diffusa, ricorre spesso il motivo a “piede di pernice”. Ci sono addirittura località che prendono il nome da questo uccello come Keklikdüzü, Keklikkayası, Keklikpınarı. Non a caso, dunque, la pernice compare sulla copertina del romanzo da cui è tratto il film.
La frase
Una delle frasi più belle del film è proprio del capitano Salih quando dice: “Se muoio va bene. Ma se rimango vivo?”. Una frase di quelle che ti entrano dentro, lacerandoti a dovere.
La chicca
Nelle prime scene, si vedono ferme al semaforo due moto, a bordo di una delle quali c’è una ragazza con le treccine decorate con dei nastri colorati, che dà lo spunto a uno dei tanti flashback che scandiscono il viaggio. I due motociclisti sono Kaan Çaydamlı e Mehmet Ada Öztekin, il regista del film. Çaydamlı è un intellettuale – scrittore, produttore, fotografo di fama internazionale – che ha fondato la casa editrice Altıkırkbeş, la prima a pubblicare le opere della beat generation in Turchia. Una di queste, “Urlo” di Allen Ginsberg, considerato il manifesto della beat generation e il poema più letto al mondo, dà il titolo ad un documentario (Uluma), ancora un road movie, prodotto dagli stessi Çaydamlı e Öztekin.
La scena più bella
Qui sono davvero in difficoltà. Ce ne sono diverse e non si può non citare lo zeybek ballato da Kerim sul fronte; ancora Kerim che aleggia come un ologramma nel campo di spighe; la scena del calzino in cui entrambi ridono in un modo così coinvolgente da farti sentire in quella camera d’albergo a ridere con loro; o ancora Duygu e Salih sulla barca. Ma se proprio dobbiamo sceglierne una emblematica, mi sposto sul divano della loro casa.
Il film, mentre celebra un tributo ai martiri di guerra, denuncia l’indifferenza sociale intorno a questo tema: Salih ce lo mostra al ristorante, dove alla tv il telegiornale dà notizia di alcuni soldati morti al fronte. Intorno regna la più totale noncuranza, la gente continua a parlare amabilmente e a mangiare. D’altro canto, anche essere un veterano significa poco, se non avere la tessera gratis del tram, dirà qualche scena più in là Salih. Peggio ancora fanno i genitori di Duygu quando urlano alla figlia: “Non puoi passare la vita in tribunale con un malato di mente senza una gamba. Ci ha rovinato la vita!”. Una frase che racchiude tutto l’egoismo della nostra contemporaneità, nella quale siamo concentrati solo su noi stessi, incapaci di vedere veramente le ferite di chi soffre. Fortunato chi ha accanto una famiglia, amici veri o una donna come Duygu, che non si arrende ed è disposta a tutto pur di riuscire a farsi ancora vedere da suo marito. La scena d’amore sul divano è pura bellezza: è forza, disperazione, tenerezza, sensualità. Vediamo due persone che si mettono a nudo con le loro debolezze e difetti per cercarsi e trovarsi. L’amore come capacità di vedere e accettare l’altro. Il tutto magnificamente sottolineato dalla canzone di Tuana Mey “I see you”, appunto.
Una sequenza che si apre e si chiude con una inquadratura su un vaso di gigli bianchi, che nella cultura anatolica simboleggiano la purezza e la rinascita, l’amore puro. Come quello che lega non solo Duygu a suo marito, ma anche Salih al suo scanzonato amico, e che è lo stesso sentimento che legherà per sempre Kerim a Elif. E che dovrebbe poter abbracciare nazioni e popoli, genti e territori, che invece continuano a essere devastate dalle guerre.
La magia di Engin Akyürek
Intensa e struggente l’interpretazione di Engin Akyürek, Tolga Sarıtaş e Belfu Benian. Tolga Sarıtaş fa un ritratto delicato e tenero di un giovane naif che sembra non riuscire mai ad essere nel posto giusto al momento giusto, eppure è capace di stare al mondo più del suo capitano. Belfu Benian interpreta con passione un profilo di donna che sa essere forte e amorevole, determinata e innamorata, compassionevole e severa; di una bellezza “burrosa” lontana dall’estetica da mannequin, che rende Duygu ancora più vera. Engin Akyürek ancora una volta si trasforma, anche fisicamente, in qualcuno che ancora non conosciamo. È ingrassato, senza barba, preciso e ordinato, quasi maniacale, con una riga laterale ai capelli che sottolinea la differenza d’età e di ruolo col suo sottoposto. Ma lo vediamo anche trasandato e con la barba lunga nel sofferto percorso clinico post amputazione. Akyürek riesce a rendere magnificamente le debolezze di un uomo in conflitto fra il senso del dovere e l’odio per qualunque cosa possa provocare la morte di un essere vivente, che sia una pernice o un uomo; che non riesce a superare i propri sensi di colpa e i rimpianti, né a lasciarsi andare emotivamente anche solo come espediente terapeutico. Quando riesce finalmente a farlo, quando si lascia andare in un pianto liberatorio tra le braccia della sua donna, davanti al motivo e ai fatti che non posso spoilerare, non possiamo fare altro che piangere anche noi.
Che ci abbiniamo?
E dopo tutto questo, difficile ragionare su un possibile piatto da abbinare senza correre il rischio di banalizzare un tale capolavoro. Ma gli impegni vanno onorati.
E allora qui ci vuole uno di quei comfort food che accarezzino il cuore, con un bel chi-se-ne-frega delle calorie. Per me in assoluto è il tiramisù. Non solo perché oggettivamente buono, ma perché se ci pensate rappresenta perfettamente il concetto di cibo come memoria, di food emozionale, legato ai ricordi. È il dessert che tutti hanno provato a fare almeno una volta nella vita, è la ricetta di chi inizia a cimentarsi in cucina per la sua semplicità, e non devi nemmeno accendere il forno! Alzi la mano chi alle cene fra amici non ha pronunciato quella soave melodia per le orecchie degli astanti del “il dolce lo porto io!”, per poi andare giù di fruste e caffè. Fermatevi a riflettere: quanti ricordi avete, legati a questo dolce?
Frammenti di memorie… .di scampagnate, spaghettate e schitarrate con gli amici, di cene romantiche culminate col cucchiaio che affonda con sensualità nella crema al mascarpone, di feste in famiglia, regali a una persona speciale, di sorprese fatte e ricevute, di parole dette anche solo con uno sguardo o di frasi mai pronunciate….
Un dolce semplice semplice (ma non lasciatevi ingannare, ci sono delle regole da rispettare) in cui la dolcezza della crema e il gusto forte e amaro del caffè sembrano la sinossi delle nostre vite, l’alternanza dei momenti dolci a quelli più furiosi, di risate e lacrime, di amori e delusioni, di trionfi e cadute.
Il segreto del suo successo è il mascarpone: voluttuoso e vellutato, appagante come un bacio, avvolgente come un abbraccio. Ma anche il caffè, da usare rigorosamente amaro e forte: non vi passi per la testa di diluirlo con l’acqua! Le uova, poi, vanno separate, gli albumi da una parte, montati a neve ferma con un pizzico di sale, i tuorli dall’altra, montati con lo zucchero.
In rete si trovano torme di ricette, attenzione però: scartate quelle che propongono la panna montata. Occorre usare solo mascarpone, che diventerà una nuvola con tuorli e albumi montati. E poi i savoiardi: non si devono usare altri biscotti se non i savoiardi e, regola ferrea, occorre bagnarli pochissimo col caffè caldo e amaro, per evitare quel disgustoso effetto poltiglia che rovinerebbe il tutto.
Insomma, sedetevi a guardare questo film con cucchiaio e coppa di tiramisù, intendo proprio la coppa, la pirofila, la teglia se preferite, dove lo avete preparato. O tuffatevici dentro a fine film. Dopo aver asciugato i fiumi di lacrime che piangerete. Mangiatene senza pensare a domani. Lasciatevi cullare da questo dolce soffice e ingannevole come una fiaba della buonanotte.
E lasciatevi andare ai ricordi, accarezzate quelli più dolorosi, piangete ancora e rivivete ogni singolo frammento. Perché, come scrisse Isabelle Allende: “Se saprai ricordarmi, sarò sempre con te”.