Lo Chef 3 Stelle Michelin del ristorante Lasarte di Barcellona
Paolo Casagrande é di una gentilezza che disarma e dalla fine del 2016 ha cucito sul petto tre Stelle Michelin, il massimo riconoscimento che la guida Rossa possa dare ad uno chef. Lo trovate a Barcellona, al ristorante Lasarte di cui dirige la cucina, insieme al maestro Martín Berasategui, con il quale da 14 anni condivide cucina ed obiettivi.Italiano, italianissimo, nato a Conegliano (Treviso) nel 1979, Paolo è figlio dell’Istituto Alberghiero di Vittorio Veneto. Il suo peregrinare in giro per le cucine di tutto il mondo inizia nel 1998: vola a Londra, poi a Chateaux Neuf du Pape con Pierre Pommel e poi 3 anni a Parigi con Alain Solivérès. Con Berasategui dà il via ad un sodalizio che dura ancora oggi e che lo porta nel 2003 nella cucina di Lasarte nei Paesi Baschi, subito dopo a capo di un nuovo progetto a Tenerife, che nel 2009 ottiene la prima Stella Michelin. Poi il breve ritorno in Italia, due anni al Casta Diva Resort di Blevio sul lago di Como e dal 2012 lo troviamo al Lasarte di Barcellona, nella capitale catalana. Qui la superba cucina della casa madre di San Sebastián, si fa eccellente grazie all’estro del giovane Paolo.
Chi è Paolo Casagrande?
«Un ragazzo semplice, nato da una famiglia umile che passava tante ore intorno al tavolo da cucina con le cuoche di casa. Da lì è nata la mia passione, da quelle ore spese a parlare di cibo e a imparare attraverso il cibo. Continuo ad essere una persona semplice che cerca di fare felici gli altri ed essere felice con ciò che fa».
Cosa è etico per lei?
«La cosa più importante è fare le cose con intelligenza, rimanendo con i piedi per terra, vale in ambito lavorativo, come anche professionale. Se usi la testa non sbagli mai o per lo meno riduci la percentuale di errore».
L’alta cucina può essere sostenibile e in che modo?
«Deve esserlo. Bisogna ragionare sui piatti che inseriamo nei nostri menu e fare delle scelte consapevoli sui prodotti, utilizzandoli nel migliore dei modi, evitando gli sprechi ed esaltando ogni parte degli ingredienti».
C’è stato un momento in cui ha capito che quella della cucina sarebbe stata la sua strada?
«La scuola alberghiera Vittorio Veneto a Tarvisio ha rappresentato l’inizio del mio personale percorso professionale che ha fatto maturare in me il desiderio di intraprendere questa strada. Prima volevo fare il geometra, per emulare i miei amici, e non perché mi piacesse il disegno tecnico. Ma ero giovane, e fortunatamente ho seguito il consiglio di mio padre, che vedendomi sempre intorno ai fornelli intento a spadellare o a curiosare mi ha indirizzato verso ciò che poi mi avrebbe cambiato definitivamente la vita. La mia zona di confort è sempre stata la cucina. Anche quando si organizzava una festa in famiglia o con gli amici, era lì, tra le pentole, che passavo le mie ore più liete. A preparare piatti per tutti».
Cos’è la creatività?
«Non smettere mai di fare qualcosa di nuovo. Non perdere mai l’interesse nella ricerca di nuovi prodotti, guardarsi sempre intorno e soprattutto cercare costantemente di rendere felici gli altri».
Le Stelle Michelin pesano più sull’uomo o sullo chef?
«Credo che l’importante sia viverle bene. Ovviamente pesano, sono una grossa responsabilità che assumiamo più che volentieri perchè sono un riconoscimento per lo chef ma anche per il suo team. Non è un traguardo solo mio, ma è rivolto a tutta la brigata, e rimane un grande stimolo per fare sempre meglio».
Perchè ha lasciato l’Italia?
«Per viaggiare, per imparare le lingue, per affinare la tecnica e per scoprire cose nuove. Più semplicemente, per la mia crescita personale. Sono ormai 20 anni che sono via, però mi sento sempre italiano. L’Italia è la mia terra, la porto sempre con me e la sento mia. Vivo a Barcellona, a stretto contatto con il Mediterraneo, ma nonostante non sia così lontano da casa, mi emoziono ogni volta che torno».
È tra i migliori chef al mondo, ma la vetta l’ha raggiunta lontano dal suo paese. Questo come ha influenzato la sua cucina?
«Non mi sento arrivato, ho ancora tanto da imparare. E parlo per me ma in realtà questo dovrebbe valere per tutti quelli che sono su quella “vetta” di cui parli. Ogni giorno cerchiamo di fare sempre meglio di ieri, facendo in modo che la nostra cucina sia semplice, rispettosa del prodotto e neutra. I piatti devono essere “trasparenti”, devono restituire quelle stesse emozioni che noi proviamo quando cuciniamo».
Ci sono degli ingredienti che non entreranno mai nella sua cucina e quali invece sente suoi più di altri?
«Mi sento molto legato alla zona del Mediterraneo. È casa mia e li ci sono ingredienti con cui mi sento davvero a mio agio: l’olio di oliva, il parmigiano, il basilico, il pomodoro, il pesce fresco. Abbiamo la fortuna di vivere a Barcellona e di lavorare in zona porto, a stretto contatto con i pescatori e con gli agricoltori che lavorano nell’area del Maresme (la zona costiera a nord-est della città). Qui il terreno e il microclima sono unici e producono verdure e ortaggi eccezionali. In cucina non mi pongo delle barriere, non c’è un prodotto che a priori scarterei. I nostri piatti sono in continua evoluzione ed è bellissimo assorbire tecniche diverse e sperimentare nuovi ingredienti figli dei nostri viaggi all’estero o delle visite in altre cucine. Da sempre teniamo gli occhi aperti per non farci scappare nulla ma conserviamo la spensieratezza e la voglia che avrebbe un bambino nel fare qualcosa di nuovo».
Con che cadenza cambia la carta?
«Non cambia mai completamente. In media, modifichiamo 2-3 piatti ogni 2-3 mesi. Ma senza uno schema temporale preciso. La volontà è quella di mantenere sempre un altissimo livello senza stravolgere totalmente l’offerta».
Capitolo formazione. Come sono i curriculum dei nuovi ragazzi, come li trova e soprattutto, anche in Spagna ci sono le stesse difficoltà nel trovare mani valide in cucina e in sala?
«In Spagna il tema del personale è complesso come in Italia. I ragazzi di oggi non sono né migliori né peggiori di ieri, bisogna semplicemente capirne il talento e permettere loro di coltivarlo al tuo fianco. È necessario aiutarli nel loro percorso e indirizzarli verso la loro naturale propensione. Colleghi, abbiate più pazienza con loro!».
Che sapore ha la felicità?
«La pasta in bianco con l’olio d’oliva: è questo il piatto che mi fa più felice. È la semplicità a farla da padrona, parliamo della caratteristica che in fondo più di altre mi rappresenta e rappresenta i miei piatti. E poi sono italiano… la mia felicità non può che essere un piatto di pasta!».